PIERRE SHAFFER E “LES TRAITES DES OBJEUX MUSICAUX”
fonte biografica - Pierre Schaeffer (Nancy, 14 agosto 1910 – Aix-en-Provence, 19 agosto 1995) è stato un compositore, musicologo e teorico musicale francese.
È stato tecnico e dirigente presso l'ente radiofonico francese, dove svolgeva attività di ricerca assieme al G.R.M.C.(gruppo di ricerca sulla musica concreta) nell'ambito della musica concreta, da lui teorizzata, praticata e illustrata nel suo trattato sugli oggetti musicali del 1966. Tra il 1949 e il 1950 Schaeffer compone la Symphonie pour un homme seul, in collaborazione con Pierre Henry (una sorta di poema concreto sulla giornata di un uomo, con respiri, passi, porte sbattute), nel primitivo Studio d'Essai, dove la rudimentalità delle apparecchiature (tre giradischi) non permette di de-naturare i rumori che mantengono così tutta la loro originaria pregnanza semantica.
Nella musica concreta pura il materiale di base è sempre precostituito: i suoni e rumori provenienti da qualsiasi contesto, cioè ricavati dalla quotidianità, dalla natura, nonché da voci e strumenti tradizionali, vengono registrati con il magnetofono (registratore a nastro), immagazzinati e successivamente elaborati e denaturati mediante varie tecniche di montaggio. Al contrario la musica elettronica pura si avvale soltanto di suoni generati direttamente dalle apparecchiature elettroacustiche, nelle quali le vibrazioni elettriche divengono vibrazioni sonore. I suoni che ne derivano sono dunque totalmente nuovi, sintetici.
fonte - Il contributo di Pierre Schaeffer alla teoria
dell’audiovisione
Nicola Bizzaro
La notorietà di Pierre Schaeffer presso la critica e il pubblico internazionale
è dovuta quasi esclusivamente alla sua intensa attività di teorico e
compositore di musica elettroacustica e, in particolare, all‘introduzione di
un nuovo modo di concepire l‘arte dei suoni (registrati e non) che egli
stesso battezzò ‗musica concreta‘. Meno conosciuti sono gli altri numerosi
ambiti coperti dalla ricerca schaefferiana che, lungo l‘arco di un cinquantennio,
lo portò a confrontarsi con una moltitudine di tematiche cruciali
per la cultura contemporanea, anche al di fuori dell‘ambito prettamente
artistico, muovendo sempre da posizioni originali e irrompendo spesso in
modo fortemente polemico nei più accesi dibattiti della cultura internazionale.
All‘interno di questo variegato panorama non poteva mancare, e
occupa anzi un ruolo centrale, un‘approfondita riflessione sull‘impiego
creativo delle tecnologie di registrazione e riproduzione audiovisiva, delle
quali Schaeffer esaltava primariamente la capacità di istituire un anello di
congiunzione fra «due termini tanto irriducibili: il corso torrenziale del
tempo attraverso ogni spazio e la durata, come cristallizzata, di una coscienza
immobile» (Schaeffer [1946] 1990, p. 43; 1970, p. 93).
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Pur accompagnando l‘intera parabola schaefferiana, l‘indagine sulla
componente audiovisiva all‘interno delle cosiddette arts-relais – termine
di ardua traduzione, che potrebbe forse essere reso con la locuzione ‗arti di
collegamento‘ o ‗indirette‘ (Palombini 1998) – non si è mai cristallizzata in
una teoria uniforme e, a eccezione di una manciata di scritti esplicitamente
consacrati a tali problematiche, la maggior parte degli spunti proposti dal
teorico si trova integrata a digressioni di argomento più generico (teoria
dei mass-media e politiche culturali) o più specifico (radiofonia e analisi
delle tecnologie di riproduzione mono-mediale), che saranno brevemente
ripercorse nelle pagine che seguono.
1. Fra estetica e tecnica: le arts-relais
L‘interesse di Schaeffer in materia di audiovisione precede di molto la
nascita della musica concreta e può essere ricondotto alla seconda metà
degli anni Trenta, all‘epoca delle prime collaborazioni del teorico con le
strutture della radiofonia francese. La sua doppia formazione di musicista e
ingegnere contribuì a offrirgli un punto di osservazione privilegiato e,
all‘epoca, pressoché unico, sulle problematiche connesse alle nuove arti
basate sulla ripresa diretta di immagini visive e sonore - e in particolare al
cinema e alla radio – che egli vedeva come accomunate da molteplici
aspetti, estetici prima ancora che tecnologici. Proprio a questi temi è dedicato
il primo saggio di ampio respiro redatto dall‘autore fra il 1941 e il
1942, Esthétique et technique des arts relais (Schaeffer, [1941-42] 2010), in
cui prende forma un nucleo teorico destinato ad informarne le riflessioni
degli anni a venire, dalla ricerca musicale a quella sui mass-media, alla sociologia
e alla semiologia dell‘audiovisione.
Una delle peculiarità del pensiero schaefferiano, in controtendenza rispetto
alla maggior parte delle proposte teoriche coeve (e di molte di quelle
attuali), consiste nella volontà di mettere in questione l‘importanza comunemente
accordata al mero dato tecnico della produzione audiovisiva (la
riproduzione meccanica dell‘immagine e del suono), negando che l‘apporto
delle nuove tecnologie rappresenti una condizione necessaria per il conio di
categorie epistemologiche diverse da quelle già impiegate dalla critica
d‘arte. A questo scopo, il teorico propone un‘analisi del processo che conduce
alla nascita di una nuova forma artistica, sia essa ‗diretta‘ (come
pittura, scultura e musica) o ‗indiretta‘ (le arts-relais), identificando tre
fasi in cui, rispettivamente, lo strumento deforma, trasforma e informa
l‘arte. Viene così definito un percorso di progressiva acquisizione di consapevolezza
circa i limiti e le possibilità dei mezzi espressivi di cui ogni
Il contributo di Pierre Schaeffer alla teoria dell’audiovisione
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manifestazione del pensiero artistico si serve: a un primo periodo di apprendistato,
in cui «[...] si perdona tutto allo strumento perché se ne
ammira la novità» (Schaeffer [1941-1942] 2010, p. 33; cfr. Schaeffer–Pierret
1969, p. 91) segue uno stadio di perfezionamento tecnico, caratterizzato
dalla necessità di riproporre modelli già sperimentati in altri campi. È il
caso, per esempio, dei numerosi cliché teatrali riproposti in ambito cinematografico
e delle opere pittoriche moltiplicate dalla fotografia, emblemi
per Schaeffer di una deviazione arbitraria, ancorché provvisoriamente necessaria,
delle specificità della nuova forma d‘arte: «[...] si chiede allo
strumento [...] non solo ciò che non può dare, ma ciò che non è nella sua
natura di dare» (Schaeffer [1941-1942] 2010, p. 34; cfr. Schaeffer–Pierret
1969, p. 92). Viene infine una fase ‗classica‘, quando tutti i principali problemi
pratici sono stati risolti e si verifica compiutamente la conquista di
modalità espressive autonome per la produzione di opere originali (si veda
anche Palombini 1998). Come si vede, è solo abbandonando ogni velleità di
addossare ai vari espedienti tecnologici la responsabilità di ampliare la
sintassi di linguaggi già consolidati che le nuove arti scoprono la propria
essenza. Quella che affiora è dunque l‘ipotesi di una corrispondenza di
principio fra l‘idea, messaggio o contenuto, e le procedure che permettono
la sua attuazione, le quali a loro volta appartengono al contesto sociale in
cui si sviluppano.
Se è tipico dell‘arte in sé, e non solo della radiofonia e della cinematografia,
il servirsi di determinati strumenti al fine di generare oggetti dotati
di particolare significato, è vero però che la rappresentazione del reale
promossa dalle ‗arti indirette‘ trascende il comune concetto di verosimiglianza
per dar vita a emulazioni talmente aderenti da essere scambiate per
il reale stesso. Nell‘ottica di Schaeffer il processo imitativo dell‘opera d‘arte
rivela, grazie ai processi rappresentativi attivati da cinema e radio, il proprio
carattere puramente illusorio: le immagini visive e sonore che i
dispositivi di ripresa trasducono in segnali depositati su un supporto fisico
non sono altro che simulacri della realtà di cui l‘artista si serve, manipolandoli,
per comporre la propria opera. Ne consegue che, anche da questo
punto di vista, non esiste nessuna differenza di principio fra un dipinto
raffigurante un volto e una fotografia dello stesso soggetto: entrambi si distanziano
inesorabilmente dall‘originale e, raffigurandolo, ne pongono in
luce alcune caratteristiche occultandone altre. Semmai, la rappresentazione
diretta e quella indiretta si distinguono per l‘uso che l‘artista fa di tali
simulacri: se nel primo caso la riproduzione è l‘opera, nel secondo essa corrisponde
piuttosto al materiale di cui l‘opera si compone, analogamente a
ciò che il colore rappresenta per il pittore, il marmo per lo scultore o la
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nota musicale per il compositore. «Il cinema – dirà in seguito Schaeffer –
si presenta come produzione di opere a partire da tali simulacri [...]. Il
pubblico, ma anche molti professionisti, hanno misconosciuto questa evidenza.
Mettendo tutto l‘accento sulla fedeltà della ―riproduzione‖, hanno
accantonato il paradosso secondo cui la realtà così trattata era allo stesso
tempo assai simile e assai differente» (Schaeffer 1970, pp. 22-23). Si profila
dunque una concezione dell‘opera d‘arte audiovisiva fortemente sbilanciata
verso un‘interpretazione formalista, che intende l‘essenza dell‘opera stessa
come costrutto di ‗elementi preesistenti‘, secondo una definizione che diverrà
classica negli ambienti della musica elettroacustica.
Lo iato che separa le arti classiche da quelle moderne non può dunque
essere individuato nelle tecnologie impiegate né nelle forme della rappresentazione;
qual‘é dunque la caratteristica che accomuna le arts-relais distanziandole
da tutte le altre forme espressive? Secondo Schaeffer la
risposta a questa domanda è da cercarsi in una maggiore predisposizione di
cinema e radio a valorizzare l‘aspetto più immediato ed evanescente del
fenomeno rappresentato, mentre le altre arti manifestano una tendenza
comune a muovere dal particolare per guadagnare quanto più possibile una
dimensione universale. Tutte le forme di rappresentazione del passato recano,
secondo Schaeffer, la traccia indelebile di una vocazione logocentrica,
imposta dal bisogno di superare le contingenze della quotidianità per definire
ed esprimere concetti assoluti. Tale necessità è però sconosciuta al
cinema e alla radio i quali, al contrario, si giovano di una straordinaria facilità
nella descrizione immediata e nell‘evocazione; al posto di raffigurare
un‘idea, essi carpiscono dalla continuità del flusso temporale bagliori unici
e irripetibili, cogliendo e offrendo allo spettatore l‘aspetto vivente del reale:
il linguaggio delle cose. Il punto di vista di Schaeffer s‘inscrive apparentemente
nel solco di quella tradizione critica che, fin dalla nascita del film
sonoro, si oppose all‘eccessivo impiego della parola, e che Sigfried Kracauer
sintetizza così: «[...] tutti i tentativi riusciti d‘integrazione del linguaggio
parlato hanno una caratteristica comune: cercano di diminuire
l‘importanza del dialogo allo scopo di aumentare quella delle immagini visive»
(Kracauer, [1960] 1962, p. 189, corsivo mio). Rispetto a questa
tradizione, però, Schaeffer compie un ulteriore passo avanti giungendo a
rifiutare in toto la logica argomentativa come supporto della costruzione
audiovisiva in favore di un‘organizzazione ‗analogica‘ dei materiali: «Questo
gioco è il vero e proprio scontro che evochiamo e che potrebbe essere
chiamato la battaglia fra logos e kosmos: linguaggio realista affinché
l‘astratto si sforzi di raggiungere il concreto. L‘idea che l‘uomo si fa del
mondo, le parole con le quali nomina le cose si compongono insieme e tendono
a creare un mondo che sia reale. Le arts-relais apportano delle
immagini, dei suoni, che sarebbero tanto informi quanto il mondo stesso,
se non ci sforzassimo di far dire loro qualche cosa e di ricondurre ad esse le
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nostre idee. Incontrare il concreto a partire dall‘astratto, questa è la grande
invenzione del linguaggio elaborato; incontrare il pensiero a partire dalle
cose, questa è l‘invenzione del cinema e della radio» (Schaeffer, [1941-42]
2010, p. 54; cfr. Brunet, 1977, p. 77).
È opportuno sottolineare che l‘aggettivo ‗concreto‘ non indica per
Schaeffer un rimando diretto agli eventi del mondo, i quali, come si è detto,
non possono che essere emulati in modo imperfetto; esso riguarda piuttosto
tutta quella serie di aspetti ‗marginali‘ di un‘opera che non
appartengono direttamente all‘espressione di un‘idea ma che, non per questo,
partecipano meno alla definizione complessiva delle forme sensibili
dell‘artefatto («[...] la vita materiale nei suoi aspetti più effimeri» nella visione
di Kracauer – [1960] 1962, p. 47). Le numerose precisazioni su
questo punto che si possono rinvenire nella teoria musicale schaefferiana
valgono a pieno titolo anche per le arti indirette: la sfumatura, il gesto, il
respiro, il tocco, ma anche l‘imprecisione, l‘esitazione e, in generale, ogni
aspetto che contribuisce a caratterizzare l‘immanenza di un particolare oggetto
della rappresentazione rispetto al suo corrispettivo ideale sono tutti
tratti potenzialmente espressivi, a patto che lo spettatore sia predisposto a
coglierne le sottigliezze.
I materiali delle ‗arti indirette‘ sono dunque oggetti estetici (immagini e
modulazioni) organizzati secondo una sintassi basata sulle loro qualità sensibili;
tali qualità sono poste in risalto, ‗rivelate‘ dalla macchina da presa e
dal microfono. E‘ la caratteristica che Walter Benjamin indicava come riduzione
della ‗lontananza‘ dell‘opera d‘arte riprodotta (categoria entro cui
faceva rientrare di diritto anche il cinema) e che Adorno definiva come ‗cosalità‘.
Ma, significativamente, per i due filosofi, quest‘aspetto eminentemente
ostensivo dei prodotti audiovisivi è da interpretare come limite delle arti
meccaniche, rappresentando per il primo il motivo principale della decadenza
dell‘ ‗aura‘ e sancendo per il secondo l‘impossibilità di una costruzione
assoluta in cui gli oggetti della scomposizione possano essere manipolati
come valori puri (cfr. Benjamin [1936] 1966, p. 25; Adorno, [1966] 1979, pp.
81-82). La soppressione del dominio del logos, invocata a più riprese da
Schaeffer, è dunque vista dai due filosofi come una rinuncia al linguaggio e al
senso; nelle parole di Adorno, «[...] che dal materiale riprodotto come tale –
nella rinuncia a qualsiasi significato, soprattutto, nella rinuncia, fondata sul
materiale, alla psicologia – scaturisca un senso appare illusorio» (ivi, p. 83).
È per questo che per entrambi i pensatori l‘immagine riprodotta finisce inevitabilmente
coll‘evocare un rimando alla società o alla politica, intese in un
certo senso come complemento o antidoto all‘eccesso di realismo consegnato
allo schermo. Al contrario, nel sistema concettuale di Schaeffer, le caratteristiche
morfologiche del colore, della luce, delle altezze e delle intensità, sono
i tratti semantici elementari di un secondo linguaggio, senz‘altro vago e im-
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perfetto, ma capace di sostenere comunque il peso di costruzioni formali e di
veicolare altri livelli di senso. È all'interno di questa ambivalenza fra la necessità
di una costruzione architettonica basata sulla manipolazione di
oggetti e la nobilitazione della concretezza dell'effimero che risiede l'identità
caratteristica dei prodotti delle arti meccaniche, grazie alla quale queste ultime
si separano definitivamente dal romanzo, dall'opera, dal concerto e da
tutte le forme di teatro filmato o radiotrasmesso per affermarsi finalmente
come linguaggio indipendente, tanto singolarmente nel campo delle immagini
in movimento e del suono riprodotto, quanto, a maggior ragione, in
quello dell'audiovisione.
2. Frammenti di una teoria: il contrappunto fra suono e immagine
Il cinema degli esordi e l‘arte radiofonica anticipano e predispongono
l‘avvento dell‘era audiovisiva. Il processo evolutivo innescato da queste due
creature del XX secolo è visto a posteriori da Schaeffer come una sorta di
laboratorio in cui si pongono i presupposti per la fondazione di un nuovo
linguaggio propriamente intermediale: muta (e sorda) la prima, cieca la
seconda, entrambe impongono ai propri adepti il duplice sforzo di liberarsi
dalle pastoie dell‘imitazione pedissequa di altre forme artistiche (soprattutto
pittura, teatro, narrativa) ed elaborare modalità espressive originali
che trasformino le rispettive ‗menomazioni‘ in altrettanti punti di forza.
Conseguentemente, la lettura schaefferiana del cinema sonoro e delle altre
forme d'interazione fra suono e immagine evidenzia in primo luogo l'importanza
di una compenetrazione non superficiale fra le proprietà di quelle
arti. Tuttavia, l‘analisi della comunicazione audiovisiva si spinge ben oltre
il semplice computo di una sommatoria di caratteristiche importate dai
singoli media, sforzandosi di pervenire a soluzioni interpretative spesso
intrecciate a prese di posizione di natura squisitamente poetica.
Gli scritti che Schaeffer consacra all‘incontro fra suono e immagine
appartengono tutti a momenti di svolta della sua carriera: il già citato saggio
sulle arts-relais, ad esempio è il frutto di un periodo di astensione
forzata dall‘attività radiofonica e precede di pochi mesi l‘inaugurazione del
Club d’Essai, laboratorio di ricerca e sperimentazione da cui discenderà il
più noto Groupe de Recherches Musicales, tuttora in attività. Quattro anni
più tardi, subito dopo la conclusione del colossale radiodramma La Coquille
à Planetes, saranno pubblicati due contributi, Propos sur la coquille
(Notes sur l’expression radiophonique) (Schaeffer [1946a] 1990) e
L’element non visuel au cinema (Schaeffer 1946b; 1946c e 1946d) dedicati,
rispettivamente, all‘estetica della radiofonia e allo studio della componente
sonora in ambito cinematografico. Quest‘ultimo, in particolare, riprende ed
approfondisce quella visione costruttivista del documento audiovisivo se-
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condo la quale, indipendentemente dal soggetto narrato, il messaggio
estetico sarebbe interamente veicolato dall‘organizzazione formale degli
oggetti, immagini visive e modulazioni sonore. Procedendo alla consueta
tripartizione della traccia sonora in rumore, voce e musica, Schaeffer
giunge a dimostrare come tutto il decorso acustico sia in realtà riconducibile
alla prima categoria, dal momento che la parola altro non è che il
rumore prodotto dagli uomini: «[...] si può dunque affermare che il testo
ha molta meno importanza dell‘intonazione delle frasi, la grana delle voci e
il grado di intelligibilità […]. Così, esso rende per giunta l‘azione esplicita,
ma né più né meno di quanto non lo sia la realtà, il più delle volte ellittica e
ambigua» (Schaeffer 1946b, p. 47). Rumori verbali e ambientali appartengono
dunque a un unico ambito della composizione audiovisiva,
perfettamente adeguato all‘immagine nella misura in cui questa non può
far altro che mostrare delle ‗cose‘. Inoltre, essendo il risultato di un movimento
fisico, tali eventi sonori testimoniano la presenza di un‘azione, di un
cambiamento, e alimentano pertanto la dinamica della scena complessiva.
Il discorso sulla musica, decisamente più complesso, parte da una
constatazione apparentemente contraddittoria: non godendo di alcun
nesso causale con le immagini, essa si discosta in primo luogo dalla
realtà della cosa rappresentata e non intrattiene nessun legame di necessità
con la struttura della rappresentazione stessa; allo stesso tempo
però la musica gode della capacità di porsi spontaneamente in relaz ione
con l‘immagine, prima ancora di ogni considerazione di tipo formale e
di ogni possibile contenuto emozionale specifico. Nell‘ottica di Schaeffer,
infatti, l‘aspetto visivo e quello acustico tendono a formare un
legame semantico immediato indipendentemente dalle scelte autoriali,
le quali possono senz‘altro potenziare e guidare tali relazioni, ma mai
sopprimerle: ne è prova la possibilità storicamente dimostrata di adattare
ogni repertorio precostituito di motivi musicali a qualsiasi
sequenza di immagini ed istituire collegamenti o fratture all‘interno del
decorso filmico. Ciò non significa però che la musica intrattenga inevitabilmente
un rapporto di subordinazione rispetto all‘immagine.
Qualora il regista sia in grado di immaginare e organizzare la propria
opera in termini sonori, oltre che visivi, la scelta degli elementi musicali
cesserà di rapportarsi al tutto in modo fortuito per assumere un ruolo
paritetico rispetto a tutte le altre componenti. In questi casi, precisa
Schaeffer «[...] siamo lontani dalla musica-illustrazione. Si tratta di musica-materiale.
Dalla congiunzione nel tempo di due materiali originali
di carattere forte, l‘uno musicale, l‘altro visivo, nasce un complesso di
impressioni particolarmente ricco […]. Esso procura quella soddisfazione
propriamente artistica che consiste nel percepire la diversità
nell‘unità, il divergente nel simultaneo: è la fioritura dell‘istante nel
tempo» (Schaeffer 1946c, p. 65).
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Rumore, parola e musica intrattengono con l‘immagine relazioni di
tipo differente, che degradano in linea di principio dall‘ineluttabilità della
corrispondenza fisica fra l‘azione e il suono ne proviene all‘arbitrarietà
della costruzione artistica di unità audiovisive complesse. Non bisogna
però dimenticare che l‘organizzazione della pista sonora è pur sempre una
composizione e che, anche laddove un evento acustico si coordini perfettamente
con un fenomeno visivo (ad esempio il rumore di passi abbinato a
una scena di marcia), non si può mai parlare, a rigore, di ‗realismo‘. Osservata
attraverso la lente della concezione epistemologica di Kracauer,
pertanto, la teoria schaefferiana si collocherebbe in netto contrasto con il
‗principio estetico fondamentale‘ del cinema – ossia la rivelazione della
realtà fisica – e abbraccierebbe piuttosto una ‗tendenza creativa‘, che si discosta
progressivamente dalla realtà per dar luogo a costruzioni
fantastiche, anche se basate su simulacri di oggetti reali (cfr. Kracauer
[1960] 1962, pp. 90-98).
Sulla scorta di questo assunto di base, l‘indagine di Schaeffer affronta
il tema dell‘incontro fra suono e immagine rimuovendo dal concetto di
sincronizzazione il ruolo di primo piano normalmente assegnatogli dalle
teorie della comunicazione audiovisiva: per il teorico francese la
sincronizzazione non deve essere vista come un problema di significati
più o meno concordanti (consonanza e dissonanza), ma come
un‘opportunità di gestire stimoli sensoriali di pregnanza variabile nella
loro successione temporale. A tale proposito, l‘autore si serve di una metafora
presa a prestito dalla fisica acustica, descrivendo la sintesi
audiovisiva come un fenomeno di maschera. Così come la sovrapposizione
di due eventi sonori può originare sensazioni acustiche assai
differenti (che vanno dalla chiara percezione di due entità distinte alla
loro fusione in un unico oggetto), così suoni e immagini hanno facoltà di
coprirsi gli uni con gli altri, di essere percepiti simultaneamente in modo
distinto, di fondersi in elementi complessi o ancora di generare sensazioni
estranee alla mera sovrapposizione degli stimoli. Particolarmente
interessante è la differenza sancita dal teorico fra ‗sincronismo‘ e ‗sintonia‘:
nel primo caso, una perfetta aderenza ritmica fra ciò che si vede e ciò
che si sente genera «[...] un‘emozione sensoriale particolarmente viva,
euforica e il più delle volte comica» (Schaeffer 1946c, p. 53). Le interpunzioni
sonore che commentano pedissequamente il flusso delle immagini
godono solo raramente di efficacia drammatica, laddove è invece
nell‘incrocio di ritmi differenti che «[...] impressioni di uguale forza auditiva
e visiva reagiscono le une sulle altre per fornire una sensazione
risultante che è utile paragonare a quei suoni differenziali o addizionali
dell‘acustica» (ibidem). Immagini e musica ‗forti‘, per esempio, intervengono
in modo incisivo sull‘esperienza temporale del soggetto percipiente,
organizzandola in modo opposto e complementare. Si tratta di un vero e
proprio ‗contrappunto‘ di suono e immagine, espressione che nella pro-
Il contributo di Pierre Schaeffer alla teoria dell’audiovisione
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spettiva di Schaeffer acquista un significato tutt‘altro che metaforico ed
esprime quel principio di complementarietà degli eventi che si verifica in
musica sovrapponendo più linee melodiche indipendenti. Vale la pena
forse ricordare che proprio su questo punto si produce lo scarto maggiore
fra l‘impostazione schaefferiana e quella del suo allievo più prolifico in
materia audiovisiva: Michel Chion. Quest‘ultimo si scaglia infatti con veemenza
contro la metafora contrappuntistica sostenendo che nel cinema «i
rapporti armonici e verticali (siano essi consonanti, dissonanti o né l‘uno
né l‘altro, alla Debussy) sono assai più pregnanti: vale a dire, nella fattispecie,
i rapporti tra un suono dato e ciò che accade
contemporaneamente nell‘immagine» (Chion, [1990] 2001, p. 42). Non si
tratta di una contraddizione di principio fra i due approcci, quanto piuttosto
di una differenza di vedute a livello estetico: mentre Chion
privilegia l‘aspetto più propriamente narrativo del discorso cinematografico
(ciò che succede sullo schermo), Schaeffer parla invece di
architetture formali, quasi non curandosi della presenza di un eventuale
argomento narrato. Rumori,voci e musica sono elementi del discorso sonoro,
distribuiti nel tempo secondo una logica sintattica che non può non
tener conto degli oggetti visivi posti in campo dalla scansione filmica. La
differenza diviene peraltro ancora più palese se si considera che per
Chion non esiste, sui piani sintattico e semantico, un complesso unitario
chiamato ‗colonna audio‘; al contrario, Schaeffer afferma perentoriamente
che il flusso sonoro deve essere organizzato come una partitura
musicale, dosando sapientemente analogie e differenze, densità e stratificazioni,
accelerazioni, riprese, variazioni e cadenze. Si evidenzia qui tutta
l‘originalità dell‘approccio schaefferiano che, contrariamente a quello di
molti studi coevi e posteriori, conferisce un peso determinante a forme di
composizione sperimentali del tessuto audiovisivo, parzialmente svincolate
dagli obblighi imposti dalla narrazione filmica e conseguentemente
più aperte a soluzioni dettate da principi di libera organizzazione formale.
Le contrepoint du son et de l’image (Schaeffer 1960) è appunto il titolo
di un successivo saggio, pubblicato a distanza di quasi quindici anni dai
precedenti (e subito dopo la conclusione ‗ufficiale‘ dell'esperienza concreta),
che affronta la correlazione fra la dimensione visiva e quella
acustica procedendo dalla descrizione dei processi psicofisiologici della
percezione. Alla base di questo scritto sta l'idea che immagini e suoni siano
accomunati da un medesimo meccanismo di eccitazione degli organi sensoriali
da parte di fenomeni vibratori organizzati in scale di frequenze.
Interpretando tali sollecitazioni, l‘individuo riconosce i contorni di oggetti
che perdurano nel tempo, secondo modalità di apparizione ed estinzione
analoghe. La durata degli oggetti è dunque il secondo livello di correlazione
fra i due campi sensoriali e, anche in questo caso, può manifestarsi tanto in
termini di perfetta aderenza quanto come totale discrasia. L‘esempio citato
da Schaeffer è quello di una bolla di sapone sovrapposta a una nota di pia-
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noforte: entrambe le immagini nascono dal nulla, evolvono nel tempo, ma
le loro modalità di estinzione sono differenti, repentina la prima, graduale
la seconda. Sulla base di questo tipo di considerazioni diviene dunque possibile
organizzare una fitta rete di relazioni oggettuali attraverso cui creare
testure filmiche più o meno complesse in cui gli elementi della rappresentazione
possono interagire per dar vita a sequenze più ampie dotate di
decorsi ritmici autonomi. Si ritorna ancora una volta al concetto di contrappunto,
la cui specificità compositiva risiede più nella stratificazione
degli impulsi che non nella perfetta sovrapposizione verticale.
Osservata nel suo complesso, anche solo in base ai pochi elementi di
cui si è dato conto in queste pagine, la teoria di Schaeffer si segnala per un
duplice orientamento, epistemologico e poetico, che fa sì che la decifrazione
dei meccanismi audiovisivi sia sempre vista come occasione per
sollevare spunti operativi immediatamente applicabili alla realizzazione di
opere. Calata nel contesto dell‘esperienza creativa schaefferiana,
quest‘ultima considerazione invita a riprendere in esame la feconda attività
di produzione audiovisiva svolta e promossa dal teorico-compositore sin
dai primi anni di attività del Groupe de Recherche de Musique Concrète
(fondato nel 1951); un‘indagine tuttora incompiuta che promette, per la
quantità di documenti e l‘originalità del substrato estetico su cui si fondano,
esiti particolarmente felici per l‘ampliamento e l‘approfondimento di
un moderno approccio teorico ai fenomeni audiovisivo
FONTE DI : rivista «Musica/Realtà», Anno XVIII, n. 52 - Marzo 1997 Edito dalla Libreria Musicale Italiana, pp. 65-78
1. La forza della premessa teorica
Sottolineiamo per prima cosa l’importanza e la forza della premessa teorica di Schaeffer, esplicitata ampiamente nel Traité des objets musicaux ma già presente negli scritti e nell’attività pubblica, radiofonica e musicale dell’autore.
Schaeffer ritiene che la produzione musicale del Novecento ci porti inevitabilmente alla necessità di una revisione, di un ripensamento di tutto il sistema musicale occidentale, polveroso e ormai sclerotizzato, incapace di condurre gli artisti su strade nuove: un sistema che non è più in grado di sfruttare i materiali con i quali è costruito ma è solo capace di riflettere sulla propria sintassi.
Questa crisi profonda del musicale è fortunatamente accompagnata da tre fatti nuovi, che possono portare spunti di riflessione e quindi la possibilità di un rinnovamento: una novità di tipo estetico, una di tipo tecnico e la nascita dell’antropomusicologia.
Per quanto riguarda l’estetica Schaeffer sostiene che assistiamo a una libertà sempre più grande e che questa libertà reclama regole, ma non c’è ancora stata un’operazione che abbia messo ordine in questa nuova estetica.
«Il secondo fatto è l’apparizione di tecniche nuove. Poiché le idee musicali sono prigioniere, più di quello che si creda, dell’apparecchiatura musicale, come le idee scientifiche lo sono dei dispositivi sperimentali. (...) Invece di allargare le possibilità della creazione, come ci saremmo potuti aspettare, le apparecchiature moderne sembrano suscitare degli specialismi, o delle eccentricità al margine della musica vera e propria»[1] .
Il terzo fatto riguarda «una realtà molto antica, in via di estinzione sulla superficie terrestre. Si tratta delle vestigia delle civiltà e delle geografie musicali diverse da quella occidentale. Questo fatto non sembra ancora aver l’importanza che merita presso i nostri contemporanei»[2]. Questi linguaggi, non ancora compresi e decifrati dalla musicologia occidentale che utilizza schemi e sistemi di notazione occidentali inadeguati alla comprensione di una musica diversa, potrebbero darci la chiave di un universalismo musicale.
Le tre impasse della musica occidentale secondo Schaeffer sono quindi l’inadeguatezza del sistema di notazione a rendere conto della generalità del mondo musicale; la scomparsa delle fonti strumentali con l’avvento del nastro magnetico; la nostra ignoranza del linguaggio musicale. Il Traité cerca di rispondere proprio a questi tre punti: tenta di creare una notazione che possa rendere conto della generalità dell’universo sonoro (ossia dei suoni e dei rumori); insegue il miraggio di un ritorno all’importanza dello strumento musicale, non in quanto oggetto o fonte da cui proviene il suono, ma in quanto momento indissolubilmente legato alle scelte del comporre, momento in cui la natura peculiare di un certo strumento musicale interagisce con la volontà creatrice dell’artista; ricerca una definizione di musica che non escluda il problema dell’universalismo del linguaggio musicale.
2. Dalla riflessione sull’ascolto all’oggetto sonoro
Il secondo spunto che vorremmo raccogliere riguarda la riflessione di Schaeffer sull’ascolto. L’autore prende le mosse da uno strumento novecentesco, l’unico veramente nuovo: l’invenzione della registrazione musicale, l’invenzione più rivoluzionaria di tutti i tempi. La possibilità di registrare il suono apre orizzonti mai intravisti prima in tutta la storia della musica, ma le attenzioni dei contemporanei sono invece rivolte all’aspetto tecnico piuttosto che alle applicazioni generali.
La prima cosa che ci deve meravigliare è il fatto che si possa trasformare un campo acustico a tre dimensioni in un segnale meccanico a una dimensione che ci permette comunque, anche se realizzato in modo grossolano, di riconoscere il contenuto semantico del messaggio. Abbiamo per esempio la possibilità - anche nella registrazione più distorta - di riconoscere il timbro di una voce umana o di uno strumento musicale.
Ma esaminiamo più da vicino alcuni aspetti della riproduzione del suono: immaginiamo un’orchestra che suona in una sala. Più tardi, incisa su disco, risuona nel salotto di un ascoltatore cui è stato fatto credere, per ragioni commerciali, che con quell’impianto è come se l’orchestra suonasse nel salotto di casa sua. L’attenzione è puntata sulla fedeltà, e non si è fatto alcun cenno al fatto che la registrazione musicale è una trasformazione, la sostituzione di un campo sonoro a un altro.
Proviamo a chiarire l’equivoco partendo da un paragone che potrebbe essere illuminante per il problema dell’ascolto: tentiamo un confronto tra acustica e ottica. Due grandi differenze separano l’esperienza dei fenomeni luminosi da quella dei fenomeni sonori. Per prima cosa, gli oggetti visivi non sono fonti di luce ma oggetti che vengono illuminati dalla luce. Per il fenomeno sonoro non è così: il suono proviene da una fonte e l’attenzione è tutta rivolta a questa fonte [3]. Il suono è sempre stato legato al fenomeno energetico che lo faceva nascere, tanto da essere confuso con lui. Inoltre questo suono è fugace, evanescente, ed è percepibile da un unico senso, l’udito. L’oggetto visivo invece è un fenomeno più stabile: non può essere confuso con la luce che lo illumina, è percepibile da più sensi, non svanisce. Con la registrazione del suono ci troviamo davanti a un nuovo fenomeno, quello della materializzazione del suono: in questa nuova esperienza il suono non è più evanescente e prende le distanze dalla sua causa, acquista stabilità, può essere sottoposto a manipolazioni.
Ma nemmeno questo avvenimento della registrazione sembra aver spostato l’attenzione dal suono segnale al suono vero e proprio. Inoltre nessuno si è mai posto la domanda più ovvia ma che è anche quella più essenziale: che cosa succede quando ascoltiamo un suono registrato invece di un suono dal vivo? Che cosa è successo al suono durante la registrazione?
Per prima cosa, durante una registrazione ha luogo una trasformazione di uno spazio acustico a quattro dimensioni (tre dimensioni spaziali più l’intensità) in uno spazio a una dimensione (monofonia) o a due dimensioni (stereofonia).
«Supponiamo un solo microfono: è il punto di convergenza di tutti i raggi che arrivano dai punti sonori dello spazio circostante. Dopo le diverse trasformazioni elettroacustiche tutti i punti sonori dello spazio iniziale si troveranno condensati nella membrana dell’altoparlante. Questo spazio è sostituito da un punto sonoro, il quale genererà una nuova ripartizione sonora nel nuovo spazio del luogo d’ascolto»[4] .
La disposizione degli strumenti nello spazio iniziale non è più percepibile nel punto sonoro se non sotto forma di intensità: nell’altoparlante il suono non è più o meno lontano, più o meno a destra o a sinistra, più o meno forte. Questo fenomeno, puramente fisico, va collegato allo spazio soggettivo dell’ascolto: l’ascoltatore diretto, quello che siede davanti all’orchestra in una sala da concerto, ascolta con le sue due orecchie e il suo ascolto è accompagnato anche da altre percezioni concomitanti. L’ascoltatore indiretto, seduto nel suo salotto davanti ad un apparecchio in grado di produrre suoni, ascolta anche lui con le sue due orecchie, ma tutti gli altri fenomeni di contorno sono assenti.
Ci troviamo quindi davanti a due ascolti profondamente diversi di cui vogliamo sottolineare in particolare due aspetti:
a) un aspetto soprattutto fisico: nell’ascolto indiretto appare una riverberazione
apparente non riscontrata nell’ascolto diretto;
b) un aspetto psicologico: la messa in valore nell’ascolto indiretto di suoni
che non avrebbero mai colpito la nostra attenzione durante l’esecuzione dal
vivo e, d’altra parte, la confusione che si crea nel riconoscere gli strumenti
musicali quando non abbiamo la possibilità di osservare gli esecutori.
Vediamo di spiegare meglio che cosa intendiamo con riverberazione apparente: il nostro ascolto è dotato di un potere di localizzazione. Nell’ascolto diretto il suono viene percepito in due modi: viene localizzato dall’ascolto diretto (il suono proviene dalla fonte da cui è emesso), ma a questo si somma il suono riflesso (o suono riverberato) che proviene da tutta la stanza. Il nostro ascolto fa la somma tra suono localizzato e suono riflesso: il suono riflesso aumenta il volume del suono, ma non impedisce all’ascoltatore di identificare la direzione della fonte sonora, e inoltre le riverberazione amalgama e arricchisce i suoni.
Ma se sostituiamo le nostre due orecchie con un microfono, questo capterà indistintamente il suono diretto e quello riflesso, li sommerà e inoltrerà così nell’altoparlante un prodotto che non è stato selezionato come lo sarebbe stato dal vivo.
Proviamo ora a esaminare il secondo aspetto, quello psicologico: in una registrazione sentiamo molte cose che non avevamo sentito nell’ascolto diretto: rumori di fondo, rumori parassiti, errori dell’orchestra, la tosse del vicino, ecc. La macchina ha registrato tutto, le nostre orecchie non lo avevano fatto nella sala da concerto: durante l’ascolto hanno selezionato tra migliaia di informazioni diverse quelle che ritenevano interessanti.
Dopo tutto questo possiamo ancora parlare di fedeltà della registrazione? Dopo le prove che abbiamo appena portato sulla trasformazione che subisce un brano musicale quando viene registrato, pensiamo ancora che il concetto di fedeltà sia corretto? Eppure, la riproduzione ci sembra perfetta.
Come è possibile? La verità, dice Schaeffer, è che i musicisti non hanno orecchio: sono abituati a fare musica, a pensarla, a scriverla, a immaginarsela, ma non sono abituati a rivolgere la loro attenzione all’oggetto sonoro in quanto tale. Schaeffer sostiene che gli unici in grado di ascoltare l’oggetto sonoro sono i tecnici del suono. La registrazione di un brano musicale non è in realtà una riproduzione fedele, ma una ricostruzione: è il risultato di una serie di scelte, di interpretazioni che i dispositivi di registrazione rendono possibili e necessarie. Il tecnico del suono è quello che esegue questa ricostruzione e che deve quindi in continuazione comparare il piano della realtà (il suono diretto) con il piano della riproduzione, in certo senso dunque con il piano della finzione, e per riprodurla deve porsi delle domande su com’è questo suono vero, reale, che deve essere riprodotto artificialmente.
Il discorso di Schaeffer sul potere della registrazione ci porta a considerare il problema dell’oggetto sonoro, problema che emerge grazie alle tecniche di registrazione e alla possibilità di ascoltare un suono senza vederne la fonte. Questa riflessione sul suono in quanto tale non è però appannaggio solo del tecnico del suono - si tratterebbe di un’elite - ma è alla portata di tutti attraverso un’invenzione diffusa in tutte le case del ventesimo secolo: la radio. E per questo nuovo tipo di ascolto che la radio ci propone abbiamo già pronto un nome, un antico neologismo: acusmatica.
Acusmatico era il nome dato ai discepoli di Pitagora che ascoltavano le lezioni del maestro da dietro una tenda, senza vederlo[5]. Questo termine lo possiamo utilizzare per la radio e per la registrazione del suono che «restituiscono all’udito la totale responsabilità di una percezione che normalmente si appoggia ad altre testimonianze sensibili.» [6].
La situazione acusmatica rinnova il modo di intendere: isolando il suono dal complesso audiovisuale di cui faceva inizialmente parte, crea delle condizioni favorevoli per un ascolto che si interessa al suono in se stesso. Una precisazione è necessaria: non si tratta di sapere come un ascolto soggettivo interpreti la realtà, ma l’ascolto stesso diventa il fenomeno da studiare. La domanda che dobbiamo fare a colui che ascolta il suono senza fonte è 'che cosa senti?' e con questa domanda gli chiediamo di descrivere la sua percezione.
Cerchiamo ora di capire quali sono le caratteristiche di un ascolto acusmatico che si verifichi nelle condizioni attuali, ossia che cosa succede quando ci poniamo di fronte a un impianto stereofonico e ascoltiamo i suoni senza poterne vedere la fonte, proprio come i discepoli di Pitagora ascoltavano il maestro nascosti dietro la tenda.
Di norma, anche se non ce ne rendiamo conto, riconosciamo la fonte sonora con l’aiuto della vista: nell’ascolto acusmatico questo soccorso viene meno e confondiamo i timbri dei diversi strumenti, scoprendo che quello che pensavamo di ascoltare, in realtà lo vedevamo.
A forza di ascoltare oggetti sonori le cui cause sono occultate, siamo inevitabilmente portati a disinteressarci delle fonti per rivolgere esclusivamente la nostra attenzione agli oggetti sonori in quanto tali. Il segnale lascia il posto all’oggetto sonoro.
Abbiamo inoltre la possibilità di riascoltare l’oggetto sonoro nelle stesse condizioni fisiche e in questo modo possiamo comprendere meglio la soggettività del nostro ascolto: abbiamo cioè la possibilità di osservarci ascoltare e possiamo studiare come l’oggetto sonoro cambia in funzione della mutata intenzione d’ascolto.
Abbiamo la possibilità di manipolare l’oggetto sonoro attraverso il nostro apparecchio: registrarlo più volte, ascoltarlo con maggiore o minore intensità, dividerlo in pezzi, ecc.
Comincia a delinearsi una definizione di oggetto sonoro: è ogni fenomeno e avvenimento sonoro percepito come un tutto coerente e ascoltato in una situazione acusmatica, indipendentemente dalla sua provenienza e dal suo significato.
Quello che Schaeffer si propone di fare è di mettere tra parentesi ogni riferimento alle cause strumentali e a ogni significato musicale già dato, dunque ogni forma di condizionamento culturale, per consacrarsi esclusivamente all’ascolto. Per lui il magnetofono ha per prima cosa la virtù della tenda di Pitagora: crea dei fenomeni nuovi da osservare, soprattutto crea delle condizioni nuove di osservazione. La nuova tecnica musicale del Novecento legata alle apparecchiature elettroniche serve molto più ad ascoltare i suoni che a produrli.
Abbiamo fornito una seppur vaga definizione di oggetto sonoro ed ora dobbiamo mostrare come si arriva alla percezione di questo misterioso oggetto sonoro. Cerchiamo di costruire un percorso ideale di ascolto:
Il silenzio è rotto da un avvenimento sonoro: io ascolto l’avvenimento, cerco di identificarne la fonte. Il suono è indice di qualcos’altro. Ci troviamo di fronte a un ruolo molto primitivo della percezione: capire qual è la causa di un evento sonoro può aiutarmi a individuare un pericolo o guidarmi in un’azione.
Io capisco, ossia nel suono cerco un contenuto. Metto in atto, in questo modo, un confronto con delle nozioni extrasonore: il suono non è altro che un segno che mi rinvia a un senso. Non ascolto l’oggetto sonoro, ma decodifico un linguaggio.
Ma se io abbandono sia gli indici sia il senso, che cosa rimane? Se noi non accettiamo di dividere l’ascolto in avvenimento e senso, allora posso percepire ciò che costituisce un’unità originale, cioè l’oggetto sonoro che è rappresentato dalla sintesi di percezioni solitamente dissociate.
Si tratta quindi di abbandonare l’atteggiamento naturale e di adottarne uno artificiale: l’ascolto acusmatico che ci guida verso l’ascolto dell’oggetto sonoro si delinea allora come un ascolto ridotto in senso husserliano, un ritorno alle fonti, una liberazione dai condizionamenti derivati dal contesto culturale o dall’abitudine a una certa pratica. La realtà viene ridotta a un campo di dati fenomenologici.
3. Fenomenologia dell’oggetto sonoro
Abbiamo più o meno definito che cos’è l’oggetto sonoro: si tratta ora di trovare i criteri che ci possano aiutare a descrivere e definire l’universo dei suoni. Per adesso abbiamo solo isolato un concetto: tutta la difficoltà sta nel creare la grammatica che ci permetterà di descrivere questo oggetto sonoro.
Secondo Schaeffer alla base della nostra attività percettiva si trova la coppia oggetto/struttura. Per oggetto utilizza una definizione di Husserl tratta da Logica formale e logica trascendentale:
«L’oggetto è il polo d’identità immanente ai singoli vissuti, ed è peraltro anche il polo trascendente nell’identità che li sovrasta» [7].
Per struttura utilizza una definizione tratta dal Vocabulaire technique et critique de la philosophie di Lalande. E’ la definizione di forma:
«Le forme sono degli insiemi, che costituiscono unità autonome, manifestano una solidarietà interna e hanno leggi proprie. Ne consegue che il modo di essere di ogni elemento dipende dalla struttura dell’insieme e dalle leggi che la governano. Né psicologicamente né fisiologicamente l’elemento preesiste al tutto».
Si tratta ora di applicare questo concetto di struttura alla musica. Schaeffer ci fornisce tre esempi:
Un esempio classico di forma (o di struttura) è quello della melodia, che non è possibile ridurre alla successione della note che la compongono. Le note possono essere considerate gli elementi costitutivi ma se rivolgo una particolare attenzione alla nota isolata, mi rendo conto che questa può apparirmi a sua volta una struttura, in quanto possiede una sua organizzazione interna. La diversità che esiste tra una melodia e una nota quando vengono considerate in quanto strutture, dipende dal livello di complessità.
Pensiamo adesso a una macchia di colore che campeggia su un foglio bianco. Trasportiamo la metafora figura-sfondo nel campo musicale: tutte le volte che faccio delle scelte di ascolto, le faccio a partire da un campo molto vasto che è rappresentato da tutto il mondo che mi circonda con i suoi rumori in cui io ritaglio (o circoscrivo) solamente quello che mi interessa. Ma questo binomio figura-sfondo è a sua volta una struttura i cui elementi sono legati indissolubilmente, e non solo: sono in antagonismo. Posso scegliere di ascoltare una conversazione che si svolge con una musica in sottofondo: se ascolto la musica non potrò più ascoltare la conversazione. E questo antagonismo lo ritroviamo anche nella coppia nota/melodia: se ascoltiamo la melodia, non cogliamo le note come fatti isolati e se ci concentriamo sui singoli elementi-note, la melodia si dissolve.
Prendiamo infine un caso molto particolare di melodia, quello della scala musicale. Ascoltiamo una scala, la percepiamo come una melodia. Ma nel caso in cui, per esempio, all’interno di un brano in tonalità di sol maggiore dimentichiamo di eseguire l’alterazione in chiave, percepiamo una stonatura, qualcosa di anomalo all’interno della melodia. La scala musicale è una struttura che condiziona la nostra percezione anche se noi non percepiamo direttamente la scala: è una struttura di riferimento, rappresenta il codice attraverso il quale io ascolto e decodifico la melodia.
Ci troviamo così di fronte a una catena infinita oggetto/struttura che caratterizza tutte le nostre percezioni: ogni oggetto è percepito come oggetto soltanto in un contesto che lo ingloba, in una struttura; ogni struttura è concepita come struttura di oggetti costituenti; ogni oggetto della nostra percezione è contemporaneamente un oggetto percepito come unità in una struttura, ed è struttura in quanto è composta da più oggetti. Questa catena ha però un limite ben definito nel sistema musicale occidentale: la nota è l’oggetto, il più piccolo elemento significativo. Schaeffer si rifiuta di considerare la nota come punto d’arrivo poiché vuole affrontare la catena oggetto/struttura dal punto di vista puramente percettivo e non da quello culturale.
Ma se rifiutiamo la nota, dobbiamo comunque affrontare il problema del reperimento di unità sonore all’interno della totalità del mondo sonoro, di un criterio che ci permetta di segmentare il flusso dei suoni. Schaeffer si rivolge alla linguistica e in particolare alla fonologia.
Come è possibile reperire delle unità sonore all’interno di un discorso? La prima suddivisione a cui pensiamo è quella delle parole che nella nostra lingua ci appare evidentissima. Ma se ascoltiamo una lingua straniera, allora non ci è possibile distinguere una parola dall’altra: la lingua ci appare come un flusso di cui non siamo in grado di cogliere la minima articolazione. Siamo in grado di farlo solo quando possiamo ricorrere al senso. Non saremo in grado nemmeno di cogliere i fonemi, poiché essi sono, proprio come le parole, relativi alla loro funzione nell’insieme del sistema di una lingua.
Come nella lingua i parlanti sono in grado di riconoscere un certo fonema, così i membri di una particolare civiltà musicale sono in grado di riconoscere i tratti pertinenti (quelli che hanno una funzione nella struttura, cioè quei fonemi che vengono riconosciuti perché hanno una funzione rispetto al significato) e di essere sordi a quelli non pertinenti. Schaeffer ricorda, per esempio, come noi non sentiamo il rumore dell’attacco in un suono, che a volte è molto più forte del suono stesso. L’esempio dei fonemi ci conferma così l’insensibilità a delle variazioni acustiche, a volte veramente notevoli.
Cerchiamo ora di applicare questo discorso al nostro problema musicale: i tratti pertinenti saranno quei valori che emergono da più oggetti raggruppati in una struttura e costituiscono gli elementi del discorso musicale astratto; gli altri aspetti, non pertinenti nella struttura musicale ma che costituiscono per così dire la sostanza concreta, prendono il nome di caratteri.
Il valore, naturalmente, comincia a esistere in quanto tale solo nel momento in cui ci sono più oggetti e questi oggetti si differenziano in base alla variazione di una proprietà comune. Questa relazione valore/carattere postula che il valore non è una proprietà fissa degli oggetti ma piuttosto una funzione che può variare a secondo del contesto, del sistema, delle regole compositive, ecc. Quindi quando ascoltiamo dei caratteri, possiamo sempre immaginare che essi abbiano la possibilità di trasformarsi in valori in un’altra struttura, proprio come una variante fonetica diventa, in un’altra lingua, un fonema distinto.
Su queste basi teoriche prenderà l’avvio il progetto del solfeggio sonoro generalizzato, un tentativo di descrivere l’intero mondo sonoro a partire dal campo dei dati fenomenologici a cui Schaeffer ha tentato di ridurre l’universo musicale.
Si tratta di cercare di descrivere un suono senza utilizzare l’analogia o la sinestesia, ma costruendo un vero e proprio vocabolario tecnico peculiare che traduca fedelmente la trama, il materiale, il corpo del suono e che possa rendere conto della generalità dell’universo sonoro.
Il progetto, non completamente realizzato e con dei difetti strutturali profondi, verrà utilizzato nelle classi du musica elettroacustica ma non sarà mai considerato nella sua portata 'universalistica', cioè come nuovo alfabeto in grado di far scaturire una musica nuova.
4. Conclusioni (DELLA FONTE)
Ci si aspettava da quest’opera un grande dibattito: nel 1966, l’anno della sua uscita, gli argomenti che affrontava erano di grande attualità e la discussione sulla musica contemporanea era estremamente vivace. Il Traité invece lascia dietro di sé un grande silenzio: non riceve critiche aspre, ma non suscita neppure adesioni, non fa proseliti. I motivi possono essere molteplici e noi vogliamo citarne solo alcuni: la mole del trattato, la difficoltà di lettura, l’approccio interdisciplinare, la lentezza dimostrativa, l’uso di dottrine filosofiche ormai in decadenza in Francia nel periodo di uscita del libro.
Neanche la musica di Pierre Schaeffer ha avuto, proprio come il Traité e il suo autore, una grande fortuna: dopo il relativo successo dei primi concerti di musica concreta agli inizi degli anni Cinquanta, dovuto soprattutto alla novità e all’aspetto rivoluzionario dei suoi propositi, la musica concreta è sparita dalle scene europee senza lasciare eredi.
A Schaeffer si pensa come a un musicista legato a un certo tipo di musica d’epoca. Eppure noi crediamo nel Traité compaiano temi che sarebbe valsa la pena di non lasciar cadere.
Pensiamo per prima cosa al problema della percezione musicale: quando Schaeffer lavora alla sua monumentale opera la psicologia della forma era già stata quasi completamente abbandonata e prima di Schaeffer poco applicata al campo musicale. Quello che sembra rilevante, non è tanto l’applicazione della Gestalt alla percezione musicale, ma il significato che questa operazione comporta in Schaeffer.
Alla base della ricerca dell’autore c’è il desiderio di una rifondazione del musicale che consenta alla musica del Novecento di superare il momento di grave crisi in cui versa: l’accusa principale dell’autore è un’accusa di intellettualismo, di una ricerca rivolta solo alle strutture astratte in dimenticanza dell’aspetto percettivo, l’aspetto concreto del fenomeno musicale. Questo intellettualismo è il primo responsabile secondo Schaeffer di una incomprensibilità della musica: solo un’attenzione nei confronti delle strutture musicali percepite permetterà alla musica di 'parlare' agli uomini, di comunicare di nuovo con essi. Il tema della Gestalt ci sembra rivolto proprio a questo: un’analisi della struttura di percezione può portarci a capire come costruire la musica del futuro, una musica che deve prendere le mosse dalle capacità del nostro orecchio, dalla nostra possibilità di individuare le strutture d’ascolto.
Vogliamo anche raccogliere i temi dell’ascolto ridotto e dell’oggetto sonoro: queste sono le due nozioni-cardine di tutto il Traité, le nozioni dalle quali prende avvio la riflessione e attraverso le quali Schaeffer costruisce il suo edificio teorico. Sono in certo senso due concetti originali, anche se dichiarano apertamente la loro filiazione da Husserl e dalla fenomenologia.
Cominciamo dall’ascolto ridotto: nel suo significato generale, legato all’esperienza acusmatica, è un’immagine di grande fascino e che inizialmente sorprende favorevolmente il lettore. Sembra aprire prospettive mai intraviste fino ad ora, un approccio al mondo non solo musicale ma anche sonoro che non avevamo mai immaginato.
Se però ci avviciniamo a questa tematica con un occhio un po’ più analitico, scopriamo subito che non siamo in grado di dire che cosa sia questo atteggiamento dell’ascolto ridotto.
Secondo Schaeffer consisterebbe in una operazione di decondizionamento dal nostro atteggiamento naturale (l’atteggiamento naturale consiste nell’attenzione verso il senso e verso gli indici): ma questo decondizionamento non sappiamo in che cosa consista. Come possiamo fare astrazione del senso e del riferimento alla causa energetica? Attraverso quale operazione? Che cosa dovrei 'sentire'? Come faccio a sapere quando sono in presenza di un oggetto sonoro? E se per caso non riuscissi a 'sentirlo'? Schaeffer ha creato una parola nuova, ma non ha saputo spiegarci che cosa la parola descrive, non ci ha messo in grado di imparare che cosa la parola descriva.
La nozione di ascolto ridotto non è però semplicemente un concetto vuoto, inutile: ha una sua funzione, più evocativa che logica o metodologica. Schaeffer, sempre in bilico tra molte discipline, alla fine ci appare come un inventore di storie, di suggestioni, un letterato, più che un filosofo. Infatti se l’ascolto ridotto dal punto di vista metodologico non spiega quello che dovrebbe spiegare, ci spinge comunque a prendere in considerazione il problema, sposta la nostra riflessione sulle modalità di ascolto. La sola evocazione dell’ascolto ridotto ci fa assumere un atteggiamento nuovo nei confronti del suono: un atteggiamento di attenzione maggiore, di stupore, di curiosità, come se ci trovassimo davanti a qualcosa di inesplorato, qualcosa di mai udito prima. «Un parola nuova è come un seme fresco gettato nel terreno della discussione»[8].
Anche la nozione di oggetto sonoro sottoposta ad analisi mostra ampiamente le sue falle: infatti l’oggetto nella sua prima definizione designa una relazione con il soggetto. Nella sua seconda accezione il concetto viene fissato invocando la pregnanza delle forme: l’oggetto viene definito a seconda della sua capacità di isolarsi rispetto a uno sfondo, di costituire un’unità percettiva. Nel passaggio dal sonoro al musicale, l’oggetto subisce un’altra trasformazione: l’oggetto sonoro acquista una funzione musicale, diventa un’unità funzionale. I tratti distintivi diventano pertinenti, l’oggetto sonoro diventa oggetto musicale. Ma nella nozione di oggetto, la pretesa era proprio quella di descrivere l’organizzazione percettiva senza tener conto della funzione nella catena sonora: nel momento in cui l’oggetto diventa oggetto musicale, non può essere più considerato come unità percettiva, ma diventa unità funzionale. Malgrado questo la nozione di oggetto sonoro, come quella di ascolto ridotto, sposta la nostra attenzione, ci apre nuove prospettive: il suono, da sempre considerato come 'qualcosa che rimanda ad altro', si libera dal suo legame con l’evento energetico che lo genera per diventare oggetto della nostra percezione, e in quanto oggetto è analizzabile e descrivibile.
Prendiamo infine in considerazione il progetto del solfeggio generalizzato: ci troviamo in grande imbarazzo nel dare un giudizio su un progetto che non è stato portato a termine e che a noi risulta di difficile comprensione a causa della mancanza totale di ascolto e pratica.
La morfologia e la tipologia degli oggetti sonori vengono considerate dai musicisti che si occupano di musica elettroacustica di grande utilità: noi però crediamo che il progetto di Schaeffer non voglia limitarsi ad essere una tecnica di descrizione adatta a un certo tipo di musica che si produce al di fuori di ogni notazione come quella prodotta in studio dal Group de Recherches Musicales (GRM). Pensiamo di poter affermare che la ricerca di Schaeffer fosse rivolta a un ripensamento molto più generale del sistema musicale occidentale e che il fine del solfeggio generalizzato, come lui stesso d’altra parte dichiara più volte nel corso del libro e nella sua lunga carriera di scrittore e ricercatore, sia quello di poter rendere conto di ogni tipo di musica, di poter descrivere la musica al di là della sua provenienza, della sua notazione particolare. Sembra che ci troviamo davanti alla ricerca di un linguaggio musicale universale, che precede i linguaggi musicali particolari. Per esprimerci utilizzando il dualismo caro a Schaeffer, un linguaggio che sia più vicino al polo naturale che a quello culturale. Se così fosse, dovremmo chiederci se si tratterebbe ancora di un linguaggio o se ci troveremmo in uno stadio prelinguistico. Ma questa domanda rimane senza risposta poiché Schaeffer non ha definito che cosa sia il linguaggio (cosa che ci sembra fondamentale nel momento in cui si vuole istituire un parallelismo) né ha risolto in modo esaustivo la comparazione tra musica e linguaggio.
Il Traité dunque è una costruzione disseminata di incompletezze, incongruenze, problemi mal posti o irrisolti. Certamente l’ambiziosità del progetto e la pretesa di interdisciplinarità sono tra le cause di una, più volte lamentata, mancanza di chiarezza: uno dei problemi di questo libro è che è troppo lungo, troppo vasto, troppo ambizioso.
Malgrado tutti questi rimproveri, siamo convinti che il lavoro di Schaeffer non debba essere dimenticato da coloro i quali affrontano la riflessione teorica sulla musica: le problematiche proposte dall’autore hanno in certo senso acquisito oggi maggiore attualità di quanto fossero al tempo della pubblicazione del Traité. Sicuramente il lettore degli anni Novanta troverebbe molto invecchiate le parti di psicoacustica e anche quelle sul lavoro in studio: i mezzi tecnici a nostra disposizione sono enormemente cambiati. Ma non crediamo che il Traité debba essere letto come un manuale che guidi la composizione di opere elettroacustiche, né pensiamo che possa essere in generale un manuale che possa interessare il compositore, sempre più rivolto verso gli aspetti artigianali, legato alla prassi compositiva, operazionale. Crediamo invece che l’ipotetico lettore degli anni Novanta possa essere il filosofo, il teorico della musica, colui al quale insomma è affidata la riflessione teorica sull’universo musicale.
Nel Traité troverà non solo un’importante testimonianza storica di quello che è stato il movimento concretista in Francia e tutta la temperie culturale di quegli anni, comprese le problematiche legate alla nascente musica elettronica, ma anche e soprattutto una grande voglia di rinnovamento, al di là della musica che in quegli anni Schaeffer componeva. Un rinnovamento che prescinde dalle circostanze storiche in cui il progetto è stato pensato e realizzato. Un’opera quindi che è nello stesso tempo molto datata e fuori dal tempo.
Per quanto riguarda le accuse di nostalgia e di reazione che sono state fatte a Schaeffer dagli stessi membri del GRM, non possiamo trovarci d’accordo. Il grande amore di Schaeffer per Bach e per la musica del passato in generale non hanno niente a che vedere con la sua riflessione sul rinnovamento del musicale. Se Schaeffer parla ancora di scale musicali, non è a causa di nostalgie nei confronti del passato musicale: siamo piuttosto inclini a credere che questo insistere sulle scale, cioè sulla struttura di riferimento, derivi da una convinzione teorica profonda che ha cercato di mostrare nel Traité ricorrendo alla psicologia della forma e alla nozione di campo percettivo naturale dell’orecchio: la musica, secondo Schaeffer, deve essere per prima cosa verificata dall’orecchio, dall’attività percettiva, che ha delle leggi di strutturazione dalle quali non possiamo prescindere.
PAOLO IPPOLITO 2017 riguardo pierre sheaffer
L’arte diretta e l’arte indiretta sembra essere questo il postulato teorico di Pierre Shaeffer
l’arte diretta :cioè la musica, la pittura, e il teatro ,e l’arte indiretta ossia la radio (quindi il fonogramma) , la fotografia e il cinema
per arte indiretta pierre shaeffer intende l’arte supportata dal mezzo tecnologico
L’ARTE DIRETTA ——
nonostante l’avvento dell’era tecnologica pierre sheaffer notò che ;nonostante si fossero fatti passi in avanti grazie alla tecnologia applicata all’arte , non si fosse passati avanti nelle idee che stanno alla base dell’opera d’arte…..l’esempio traspare nel cinema con il rifacimento cinematografico di alcune opere teatrali…
ma la cosa più importante che nota Shaeffer è che il mezzo audiovisivo non arriverà mai a riprodurre la realtà ….facciamo un esempio: il quadro del pittore Vincent Van Gogh “Notte stellata” lo potrai fotografare e riprendere con le nuove fotocamere/telecamere più tecnologiche possibili (oggi siamo al 5k) ma non si non arriverà mai ad eguagliare ciò che vede l’occhio nudo , umano nel museo!
e di qui si può discorrere tanto in ciò che avviene nell’audio :dalla registrazione su nastro di pierre sheaffer ed altri ingengneri/musicisti degli anni 30 ,alle moderne tecnologie digitali che misurano frequenze di campionamento e potenza in bit avendo a disposizione un materiale numerico (il digitale ….digitus in latino significa numero) gli ingegneri del recente passato (l’era del digitale 70/90) hanno pensato :lasciamo la frequenza di campionamento a 44.100 HZ tanto l’orecchio umano non può udire le frequenze al di sopra di queste ,al massimo può sentire i battimenti ….. tutto ciò per imitare il più possibile la realtà che non sarà mai reale come la natura ,come l’ origine ….di fatti a noi tecnici del suono ci danno delle nozioni specifiche a riguardo ;ad esempio: la voce deve essere naturale in un brano di musica pop/rock leggera o addirittura metal … oppure il suono di una band deve imitare il suono della stessa band che esegue i propri brani in un campo aperto nell’aria…. tutto questo per imitare la vibrazione nell’aria senza reverberi e battimenti , la natura e ciò che è reale …un esempio lampante è ascoltare la propria voce nel parlato , essa quando viene registrata non risulta reale nel nostro inconscio: …”ah ma sono io che ho questa voce cosi stupida ???non la riconosco !!!” ….proprio perché la conosciamo sin da bambini ,da appena nati ….puoi urlare e parlare animatamente e/o con dolcezza con qualcuno…mentre lo fai sei naturale ma se qualcuno la registra e senti che è la tua ….non ti risulta naturale per come l’hai generata ….. gli do un ascolto oggettivo e un giudizio soggettivo….tra l’altro i migliori cantanti odiano la propria voce e sono soggetti ad autocritiche (vedi john lenon, jim morrison ) e autosvalutazioni
L’ARTE INDIRETTA
Ciò che secondo pierre shaeffer si può fare con l’arte indiretta: è l’abbellimento , la decomposizione , la ricomposizione il ristrutturamento di un opera d’arte (un po' come succedeva e succede nel restauro)……quindi dell’audio/visivo si può fare il nuovo mastering di un brano dei beatles , un remix dei kraftwerk , una nuova videoinstallazione di karl heinze stockhausen , il remake di un film …
Sempre riguardo l’arte indiretta - è vero che la registrazione di un orchestra dal vivo viene sentita diversamente IN CASA ,nel salotto ,con degli altoparlanti , sopratutto se rapportiamo la musica classica d’orchestra (a cui si riferisce la fonte ) alla musica odierna ;ossia leggera ,rock o elettronica ,il pubblico in questo caso ipercontestualizza molto l’ambiente sonoro e quindi la sua immanenza e in seguito la scelta dell’autore :sono usciti tanti live ,dopo il trattato ,di pierre shaeffer si è passati dalla provocazione del “live in pompei" dei pink floyd (dove non c’erano spettatori) e la registrazione era fatta in un anfiteatro greco…ai famosi live in japan cosi evoluti tecnologicamente …è un peccato dire che pierre shaeffer non ha proseliti …lui ne dovrebbe avere di più, proprio oggi, che siamo nell’era della post produzione ;Ed il tecnico del suono ha un ruolo fondamentale e non sempre così ambizioso come all’epoca di pierre shaeffer , di fatti molti tecnici e molte apparecchiature sembrano mostrare delle lacune sopratutto dal vivo , si passa dal palco dell’ariston di sanremo al concerto del primo maggio e si scopre che non tutti i tecnici se la passano bene e di conseguenza anche il musicista in un contesto non più classico ma mediatico (es. x factor e i “talent” : DEVI FARE un album e se non va bene sei fuori; e per ora sono tutti fuori ;tranne MENGONI).
è anche vero che quello che dice pierre shaeffer mostra delle contraddizioni se rapportate ai giorni nostri ad esempio i piccoli rumori di fondo della musica da camera (di cui dice questa fonte) sono diventati cori, applausi o fischi quindi ipercontestualizzano il prodotto finale.
deve essere bello ad esempio per un cantante :che i propri fan conoscano a memoria la propria canzone e la cantano insieme a lui semmai nel ritornello dal vivo ,significa che la hanno sentito in radio o in streaming ,su internet o abbiano comprato il cd ..tutto questo è dovuto proprio all’invenzione del fonogramma il cosiddetto oggetto sonoro di cui parla pierre shaeffer .
fù monumentale Pierre Sheaffer a dire che nel fonogramma (la registrazione) vi sia sempre un artificioso riverbero irreale che ancora non riusciamo ad eliminare in fase di post produzione il musicista suona lo strumento o canta ma l’esecuzione la sente diversa da come la ha interpretata, si sono fatti dei passi in avanti (da relativamente poco) per quanto riguarda la voce con l’avvento delle schede audio digitali ,ma non oso immaginare chi doveva lavorare negli anni 30 come nel caso del nostro shaeffer …..e come dice la fonte è solo un fatto fisico il cosiddetto ritardo (delay latency) …la latenza che ancora oggi (con software sempre più eleborati non riusciamo ad eliminare (siamo nel quasi nel 2020)
d’accordo ancora con pierre sheaffer nella scomposizione da armonia a nota singola di un brano che sembra essere un analogia tra atomi e nuclei ; fa bene a dare la colpa a “noi” occidentali di esserci fossilizzati nella nostra struttura di canzone e quindi di spartito musicale che si ferma a Wagner e che viene poi spazzata via dall’avvento dell’oggetto sonoro (la registrazione audio) dove sin dall’inizio il suono sintetico ha mostrato grande versatilità e dissonanza a dispetto del nostro cosiddetto suono occidentale facendo diventare veramente la musica un qualcosa di universale ,senza muri o frontiere .
dal punto di vista tecnico è Vero anche noi ascoltiamo in tre dimensioni e che i microfoni REGISTRANO IN MONO o al massimo registrano in stereofonia ,SE ESSI SONO DUE ATTRAVERSO LE TECNICHE DI REGISTRAZIONE (tipo con il panning e la tecnica di microfonazione X/Y)
però è anche vero che dal punto di vista degli altoparlanti quindi della sorgente sonora siamo migliorati grazie all’avvento del dolby sorround. dal 3.1 in poi